In un determinato momento — verso la metà del sec. XVI? — la chiesa di s. Giovanni E. cessò di funzionare da matrice, perché fu costruita la parrocchiale intitolata all’Annunciazione, che durò fino alla fine del 1600. Con un po’ di fatica, e non senza qualche perplessità, dai documenti in mio possesso, potrei ricostruire quale fu questa seconda matrice. Ma ritengo superfluo uno studio critico e dettagliato di ciò che più non esiste e ci porterebbe lontano dal nostro argomento principale che, non dimentichiamolo, è quello dell’attuale nostra parrocchia. Comunque, mi limito a tracciare qualche grande linea e a fare qualche rilievo, con riferimento sempre alla chiesa attuale, anche perché saremo aiutati a meglio conoscere questa.

La matrice del ‘600 aveva lo stesso orientamento della successiva, da est (altare maggiore) a ovest (porta d’ingresso principale). Aveva un transetto e una navata, però questa, come quello, era abbastanza più corta, più stretta e più bassa della chiesa attuale. Era poco elevata al di sopra del piano della piazza, mentre quella odierna lo è abbastanza di più. Vi erano due porticine laterali, ingressi secondari, orientate, come le odierne, l’una a sud, l’altra a nord. Aveva l’altare maggiore e gli altari laterali chiusi da cancelletti di legno (in generale anche gli altari e le predelle erano di legno) in maniera da formare delle cappelline. Il S.mo fu custodito in un altare laterale, detto del Sacramento o del Corpus Domini, e pare che soltanto neI 1620 fu concessa la facoltà di passarlo all’altare maggiore come si continuò a fare nella chiesa ricostruita del ‘700, uso questo che durò sino al 1910. Nel 1620 si parlò altresì di due sagrestie, «la vecchia e la nuova», la prima era situata nei pressi del pulpito, la seconda (non ancora funzionante) era dietro l’altare maggiore, ossia pressapoco dove oggi c’è la canonica e la stanzetta-deposito con il lavabo e il bagno. Infine tutto il corpo di fabbrica del ‘600, rispetto alla positura attuale, doveva essere, penso, più a destra, cioè più a sud, in modo, forse, che il fianco destro confinasse in linea col terzo gradino della scala dell’attuale ingresso sud. A mio parere, della seconda matrice gli unici elementi superstiti — che sono rinascimentali — si possono riconoscere nel muro fiancheggiante, sulla sinistra, la scalinata che dal lato sud introduce in chiesa. Infatti nella facciata interna di questo muro si ammirano gli archi romanici (uno è intero), mentre nella facciata esterna sfilano, in alto, le caratteristiche arcatelle, venute fuori con l’abbattimento di alcune case ivi addossate. A proposito, alcuni di questi vani demoliti, quelli immediatamente attaccati al muro degli archetti, appartenevano al Chierico Notaio Santo Riccio (che non era sacerdote, come qualcuno ha scritto!) e comunicavano con la chiesa, mediante una porticina che tuttora si vede, murata, là dove c’è la statua del Sacro Cuore di Gesù. Una persona anziana, che io ascoltavo rispettosamente, mi diceva: «annu minatu a nterra la stanza te lu nutaru Santu». Nel secondo quaderno di Spigolature mi occuperò del notaio Santo Riccio. Perché fu demolita la seconda chiesa matrice? Due furono i principali motivi: incapacità ricettiva, a causa della cresciuta popolazione, e condizioni precarie e deplorevoli della chiesa. Per meglio comprendere il primo motivo — crescita demografica di Casarano — ci si consenta una digressione: come venne a formarsi e a crescere Casarano?
Nel volume VIII dei Registri della Cancelleria Angioina — forse il più antico documento letterario su Casarano — appare l’esistenza di due Casarano, quello Piccolo e quello Grande. Infatti a p. 182 di quel volume è riportata una particola del Registro dell’anno 1272, f. 120 a t0, dove Carlo I d’Angiò (1226-1285) «conferma alla Chiesa di S. Maria di Casarano Piccolo il possesso del Casale di Casarano Piccolo, perché alla medesima Chiesa lo aveva lasciato in legato la defunta vedova Adelisia Bomiardi, figlia dei defunto milite Roberto Bomiardi; e Adelisia teneva in possesso anche il Casale di Casarano Grande». Ecco il testo originale: « Confirmat ecclesie S. Manie de Casarano Parve possessionem casalis Casarani Parvi, quod eidem ecc. legaverat qd Adelisia Bomiardi, vidua, f. qd Roberti Bomiardi mil. que tenebat etiam casale Casarani Magni » Casarano Grande è l’odierno Casarano, Casarano Piccolo è Casaranello. Venivano anche chiamati Casarano superiore e Casarano inferiore, di sopra e di sotto, come c’erano in quei tempi Matino superiore e Matino inferiore, Grottaglie superiore e Grottaglie inferiore ecc., così come tante località italiane che ancora oggi continuano a distinguersi con i due attributi, per esempio la città di Nocera, in provincia di Salerno. La voce Casaranellum, per Casaranum parvum, la ho incontrata per la prima volta in un documento del 1637.
Orbene, il fatto che nel 1272 (se non prima) è ormai affermata la distinta denominazione di Casarano Grande e di Casarano Piccolo, ci autorizza a ritenere che l’attuale Casarano per diventare Grande sia cominciato a sorgere verso l’anno mille, o giù di lì. Non nacque adulto, ma lo divenne. Si formò con l’emigrazione, in parte spontanea in parte forzata, degli abitanti di Casaranello, per sottrarsi alle incursioni dei Saraceni e di altri pirati che approdavano ai bassi lidi dello Jonio. Si ebbe inoltre l’immigrazione di cittadini dei paesi limitrofi, soprattutto di Gallipoli, anche loro costretti da varie vicissitudini ad abbandonare il luogo di origine, oppure attirati dal salubernimo clima collinare di Casarano. ~ ovvio rilevare che il fenomeno migratorio, circa mille anni fa, non poteva avvenire in massa e rapidamente, né a Casarano era da pretendersi, in quel tempo, disponibilità di attrezzatura ricettiva, e d’altra parte con i mezzi di cui si disponeva allora non era possibile determinare un boom edilizio. Quindi l’ingrandimento di Casarano non fu repentino, ma piuttosto lento e i suoi primi abitanti giunsero da Casaranello. Attraverso quale percorso? Da decenni io sostengo che si sia seguito questo itinerario: dall’attuale via Covile, che inizia a ridosso della superstite chiesa di Casaranello, si gira a sinistra e s’imbocca via Tevere, la quale ancora oggi presenta, nella roccia carsica affiorante, i profondi solchi della carreggiata, testimonianza del traffico plurisecolare. Speriamo che quei solchi così eloquenti non vengano soffocati nel silenzio, riempiendoli con brecciame e poi di nero asfalto! Da via Tevere, attraversando la via nuova di Taurisano si esce alla masseria, con cappella e romitorio, di S. Elia. A questo punto o si prosegue dritti e, costeggiando lu tumaru si raggiunge la Madonna della Campana, o si gira a sinistra. Questa via di sinistra sale in soave pendio (donde il toponimo di via Pendino) e sfocia nella piazzetta d’Elia. Se non che a duecento metri circa dalla terminazione, ancora a sinistra, si biforca con via Francesco Antonio Astore. Anche questa prosegue, divergente dall’altra, in leggera salita, lascia a sinistra via N. Bixio col palazzo d’Astore e a destra la cappella di S. Vito, per sboccare in piazza Diaz, la piazza principale di Casarano.
Il percorso non è che la vora o ora o hora, che corrisponde all’italiano gora, nella quale si convogliano quasi tutte le acque piovane che scendono da Monteforte, da S. Eleuterio e dalle due colline che la fiancheggiano, cioè quelle dell’Immacolata e della Madonna della Campana. Le acque permeano le campagne e il sottosuolo e si perdono lontano in via Covile e in via Vecchia di Ugento (con le tre ore = trebore), non senza formare pozzanghere qua e là in via Pendino, per cui questa via è nota volgarmente anche con il topo­nimo lu làccu, dal greco che significa fossa, pozzanghera.
Per il movimento migratorio dai paesi viciniori, oltre a questo itinerario da sud e da sud-est, ne esistettero altri per tutto l’arco che va da nord-ovest a nord-est di Casarano, poiché la cittadina è al centro di tutto il basso Salento. Sicché con gli stanziamenti degli immigrati, giunti da ogni dove, Casarano finì col superare, e di molto, in estensione e in popolazione, Casarano piccolo, dal cui sfollamento aveva tratto la sua origine.
Ho raccolto da varie fonti i censimenti della popolazione di Casarano e, quando li ho trovati, anche quelli di Casaranello. Il numero degli abitanti, quasi sempre, si deve intendere approssima­tivo, sia perché ci è stato trasmesso come tale, sia perché di alcuni anni veniva registrato soltanto il numero dei fuochi, cioè delle famiglie, che io poi ho moltiplicato per quattro nei secoli XVI-XVIII. Ho potuto verificare infatti che quattro era il quoziente tra numero di abitanti e numero dei fuochi, per quegli anni dei quali avevo a disposizione sia il numero dei fuochi sia quello degli abitanti (per esempio degli anni 1694, in ACN, A37 e 1754, in ACN, A78). [...]. La popolazione di Casaranello è quasi sempre in riduzione progressiva, mentre quella di Casarano, dalla fine del ‘500, è quasi in costante aumento. Qualche volta scende per poi risalire, ma questo alternarsi di calo e di crescita era determinato dall’alternarsi di improvvise pubbliche calamità (epidemie di colera, pestilenze, terremoti, guerre e razzie di corsari) con periodi di tranquillità e di benessere.
L’altro motivo della demolizione della seconda matrice furono le condizioni miserevoli in cui era ridotta.
Nella seconda metà del ‘600, sia Mons. Girolamo de Coris (vescovo di Nardò dal 1636 al 1669) sia Mons. Tommaso Brancaccio (vescovo di Nardò dal 1669 al 1677) nelle visite pastorali rilevarono e denunziarono lo stato precario della parte muraria, degli altari — che, ripeto, erano quasi tutti di legno — della suppellettile, della sagrestia, del coro. I pastori in santa visita tolleravano, interdicevano e, di volta in volta, si ricorreva — sotto le minacce — ad accomodi e a restauri parziali e provvisori. E si tirava avanti. Ma quando salì sulla cattedra episcopale di Nardò Mons. Orazio Fortunato (vescovo dal 1678 al 1707), egli, davanti al desolante e deplorevole spettacolo della matrice di Casarano, della sciatteria di una parte del clero, della decadenza dei sacri riti e del culto, reagì energicamente.
Nel 1679, per un motivo o per un altro, interdice quasi tutti gli altari, definisce la chiesa incapace, angusta, indecente e deforme — perfino il pavimento è tutto rotto e dissestato a causa delle sepolture disuguali e mal coperte — e conclude sdegnato: «è piuttosto una stalla (stabulum), è una cantina (cella vinaria), non il tempio di Dio!» . Visita la sagrestia e il coro e non li trova in migliori condizioni della chiesa, c’è sporcizia e disordine. Mette fuori uso un calice e alcuni messali sbrindellati e sudici, strappa e distrugge corporali lisi ed altra suppellettile, bollando alcuni del clero di sordida avarizia. Del resto, nel coro il clero ci andava raramente, i divini uffici e le funzioni religiose illanguidivano. «Ad hanc corruptelam prosternendam et abolendam» il vescovo ricorre a decreti a minacce ad ingiunzioni. Perché rifiorisca la pietà del clero e il decoro del culto, a vantaggio delle anime dei fedeli, prescrive una serie di norme che riguardano la recita dell’ufficio divino, la celebrazione delle messe, i funerali, i matrimoni, la predicazione ecc. ecc. Così ci si trascinò avanti per un ventennio.